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Nadab – Solo Exhibition

Nadabin arabo cicatrice – è il racconto della diaspora siriana attraverso momenti e luoghi che Alessio Cupelli ha ripercorso in lunghi viaggi, nei Balcani, in Grecia, in Libano, in Giordania e in Iraq al fianco degli operatori dell’organizzazione umanitaria INTERSOS.
Oltre 6 milioni di persone hanno lasciato la Siria in cerca di protezione a partire dall’inizio della guerra civile, nel marzo del 2011.
Anche se l’85% dei rifugiati ha trovato accoglienza nei Paesi vicini, sono 127 i Paesi del mondo che hanno accolto rifugiati siriani.
Il flusso migratorio che ne è derivato ha inciso profondamente sulla geografia economica e sociale di molti paesi, creando nuove sfide di accoglienza e difficili convivenze.

Il lavoro di Alessio Cupelli si muove su più tempi: quello degli eventi che hanno scandito il lungo cammino dei rifugiati siriani, il tempo della sospensione, il limbo dove tutto sembra diventare immobile e il futuro avvolto da una spessa coltre di incertezza. La sua ricerca si concentra su due aspetti di questa storia complessa. Il primo è legato al flusso di rifugiati verso l’Europa nei primi mesi del 2016, alle vicende del campo di Idomeni nel Nord della Grecia, alla rotta balcanica, alla chiusura delle frontiere e al limbo che ne è seguito.
Il secondo indaga le condizioni di vita e le sfide di coloro che si trovano ormai da molti anni negli insediamenti informali e nei campi di Libano e Giordania.

Nadab è la testimonianza di molte cicatrici: quelle legate alle esperienze di luoghi attraversati, vissuti e trasformati, quelle connesse alle macerie di guerre e conflitti ancora vicini nella memoria, dalla rotta balcanica al medio-oriente, ma soprattutto quelle che ogni rifugiato porta dentro di sé.
Luoghi di mezzo, luoghi di passaggio, non-luoghi e neo-luoghi sono lo scenario di questo lavoro fotografico: frontiere e transiti, campi profughi, insediamenti informali, periferie urbane così come stazioni, porti e vie di comunicazione.
Il racconto delle vite di persone bloccate alle periferie dell’occidente, o relegate ai margini del loro paese di origine, alterna a una narrazione tradizionale, fatta di micro storie, o piuttosto di molti micro eventi, l’astrazione dei paesaggi e delle architetture, e momenti in cui di fronte a noi, in attimi di profondo lirismo, cogliamo semplicemente tutta la profondità dell’esistenza umana, entrando a contatto con una dimensione intima e umana della condizione di rifugiato.

Alessio Cupelli è tornato più volte in molti dei paesi che ha visitato, ha visto come il tempo lentamente si deposita, si cristallizza e trova nuove forme di vitalità.
In questa mostra, in cui la bellezza delle immagini trova il giusto contrappunto nella necessità di rendere gli eventi leggibili e pronti ad essere interrogati, luoghi, tempi ed eventi della diaspora siriana si confrontano, come se le immagini e ciò che ci raccontano potessero guardarsi e parlare fra loro e con chi le guarda, spettatore partecipe di un dialogo aperto fra gli uomini e con la storia.

Siamo ad Idomeni, all’inizio del 2016. E’ un nome ormai entrato nell’immaginario collettivo, un villaggio, ai piedi di una collina, al confine fra la Grecia e la Macedonia. Quasi irrintracciabile sulle cartine geografiche, cinque anni fa diventò uno snodo centrale lungo la rotta dei Balcani. I profughi siriani che scappavano da una guerra che ancora non è finita – così come quelli afghani o pakistani –, da quella piccolissima città di confine provavano ad entrare in Macedonia. E da lì, proseguire fino in Germania o nei paesi scandinavi. Decidere di seguire quella “rotta”, per chi fuggiva, era una scelta ponderata. Ma queste cose ormai le conoscono tutti. Così come tutti sanno che, all’improvviso, alla fine del 2015, la Macedonia decise di chiudere la frontiera. Lui, arriva ad Idomeni proprio in quei giorni drammatici. Dove la vita, i progetti, il proprio destino era appeso a “voci”: forse si riapre la frontiera, forse no, forse domani. Magari dopodomani. “Quell’uomo aveva alle spalle già una lunga e sofferta vicenda. Decise di vendere ogni cosa e di far scappare quasi tutta la sua famiglia alle prime avvisaglie della guerra, capendo subito che del suo villaggio siriano di frontiera non sarebbe rimasto più nulla”. Fa scappare quasi tutta la sua famiglia che riesce ad arrivare in Germania. Quasi tutta. Perché lui non parte subito, deve badare ad un figlio che ha molti problemi. Di mobilità, di attenzione. Resta in Siria finchè può. Quando vede che la guerra bussa alle porte di casa, parte. E arriva ad Idomeni. Esattamente nei giorni di chiusura della frontiera. Delle frontiere, perché le sbarre si abbassano quasi contemporaneamente sia in Macedonia che in Serbia. Lui arriva lì nei giorni della speranza, noi giorni dell’angoscia. Le vicende – anche queste – sono arcinote: l’interruzione della “rotta” impose a decine di migliaia di persone di fermarsi ad Idomeni. Fu allestito un campo profughi che presto diventò uno sterminato campo profughi, una delle più drammatiche crisi umanitarie nel cuore dell’Europa. Il protagonista della foto era lì. Non esattamente nel campo profughi. Perché vecchi rancori e nuovi litigi, l’avevano costretto ad allontanarsi almeno un po’ dai suoi connazionali e trovare rifugio in un vecchio edificio abbandonato. Insieme ad altre famiglie, poco distante dal campo profughi. Esattamente quel muro bianco che fa da sfondo alla foto. Non è stato facile scattare quest’immagine. “Non mi bastava, e non mi basta, la denuncia: volevo cogliere altro”. Alessio Cupelli voleva cogliere, appunto, la dignità di quell’uomo, costretto in un limbo, dove non si va avanti ma non si può tornare indietro. Dove una nuova vita col resto della tua famiglia sarebbe lì, ottocento chilometri più a Nord, ma dove non puoi andare. Eppure, in queste condizioni, conservi la tua dignità. Una delle poche cose che ti rimangono. E allora “non puoi limitarti ad uno scatto: devi passare ore e ore con loro. Con lui. Devi farti accettare, devi provare a stabilire un rapporto di fiducia”. Un lavoro che richiede tempo.

Stefano Bocconetti per The Post Internazionale

 

Il progetto fotografico entra in un simbolico dialogo con le architetture essenziali e le grandi vetrate del WEGIL, ripercorrendo la rotta Balcanica nella Sala d’Onore e nell’Area Esposizioni dell’edificio per poi dedicare un approfondimento al Medio Oriente. A legare i due ambienti una grande mappa animata in vinile allestita  alla fine della Sala d’Onore. Il percorso espositivo che si snoda lungo l’Area Esposizioni richiama la forma semplificata di un labirinto, così da facilitare l’immedesimazione dello spettatore con l’idea di un percorso non lineare, dove si incontrano blocchi, ostacoli e deviazioni inaspettate e inaspettate aperture e ospita le fotografie di Cupelli che raccontano le principali tappe della rotta balcanica. Di fronte, le grandi vetrate che si affacciano sul cortile vedranno allestite dei totem che riproducono una sintesi simbolica della diaspora siriana.

curated by Chiara Capodici

 

vernissage 19.09.19 Roma

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